Il 14 maggio la Commissione europea ha presentato una nuova proposta legislativa per la semplificazione del quadro normativo di attuazione della PAC 2023–2027. Il pacchetto mira a: semplificazione e snellimento dei requisiti a livello aziendale, facilitazione dell’accesso al sostegno per le aziende agricole di piccole e medie dimensioni, adozione di misure per rafforzare la competitività e ampliamento della flessibilità degli Stati membri nella gestione dei piani strategici della PAC (PSP).
Tra le proposte figura l’introduzione di un principio di rispetto “de facto” da parte degli agricoltori biologici di alcuni obblighi della condizionalità ambientale, escludendoli dall’attuazione delle BCAA 1, 3, 4, 5, 6 e 7. Gli Stati membri potranno adottare versioni nazionali delle BCAA, basate su normative già esistenti. Viene modificata la definizione di prato permanente (da cinque a sette anni) e innalzata la percentuale massima di riduzione della quota di prato permanente (dal 5% al 10%).
La proposta estende le esenzioni dai controlli e dalle sanzioni ai piccoli beneficiari sostenuti dal FEASR. Gli Stati membri potranno compensare, tramite ecoschemi o pagamenti agro-climatico-ambientali, i costi derivanti da norme nazionali che vanno oltre la condizionalità. Si amplia inoltre la possibilità di pagamenti per unità di bestiame (UBA) e alveari. Il periodo per ottenere sostegno agli investimenti viene esteso da 24 a 36 mesi.
Particolarmente rilevante è la previsione che esclude i pagamenti di crisi dall’ambito di applicazione del sistema di condizionalità sociale. Si tratta di una prima forma di deroga che, sebbene limitata, solleva preoccupazioni sulle future decisioni in vista della riforma post 2028.
La proposta prevede anche l’aumento del pagamento forfettario per i piccoli agricoltori da 1.250 euro a 2.500 euro, esentandoli dal sistema di condizionalità. Ulteriori semplificazioni sono previste per la rendicontazione, il monitoraggio e i controlli, compreso l’uso obbligatorio del sistema AMS e l’adozione di un regime unico di controllo in loco.
Non mancano, tuttavia, elementi di criticità:
prosegue il processo di ridimensionamento delle ambizioni ambientali della PAC.
viene ulteriormente ampliato il novero dei soggetti che sono esentati dall’ambito di intervento dei controlli sul rispetto degli obblighi della condizionalità ambientale.
prosegue il percorso di nazionalizzazione della PAC.
Sul piano degli effetti sul lavoro dipendente preoccupa infine la presenza nella proposta di revisione di una prima forma di deroga all’applicazione della condizionalità sociale.
Il Rapporto Economico sull’Acquacoltura 2024 pone una specifica attenzione al periodo 2017-2022, sulla base dei dati raccolti nell’ambito del programma EU-MA2.
Per l’Italia mette a disposizione dati per tutti i principali settori produttivi dell’acquacoltura, includendo il settore marino, quello d’acqua dolce e quello dei molluschi. Nel 2022, sia il volume che il valore della produzione del settore hanno registrato variazioni significative rispetto agli anni precedenti. Il volume complessivo è diminuito del 13% rispetto al 2021, attestandosi a 123 mila tonnellate, mentre il valore totale delle vendite è calato del 12%, raggiungendo 404,1 milioni di euro.
La produzione acquicola italiana è caratterizzata da quattro principali gruppi: mitili mediterranei, trote, vongole veraci filippine, orate e branzini e la figura sottostante ne riporta i valori in termini di peso e valore percentuale.
Principali specie prodotte e performance economica per segmento
Il segmento Trota (Vasche e canali) ha generato un fatturato di 93,3 milioni di euro, con costi operativi di 65,2 milioni e un utile netto di 23,4 milioni. Sono state vendute 29 mila tonnellate, con un ROI del 18,7% e investimenti netti pari a 33,9 milioni. Il comparto Spigola e orata (Gabbie) ha registrato 65,4 milioni di fatturato, 38,5 milioni di costi operativi e 24,4 milioni di utile netto. Le vendite sono state di 8,7 mila tonnellate, con un ROI molto alto del 43,3% e 11,8 milioni investiti. Vongole (su fondale) con 163,4 milioni di fatturato è quello con il risultato il più alto dei 4 segmenti, con 50,3 milioni di costi operativi e 111,4 milioni di utile netto; ha venduto 21 mila tonnellate, ottenendo un ROI altissimo del 220,4%, con investimenti netti di 13,9 milioni. Il segmento del Mitilo (longline) ha avuto un fatturato di 54,2 milioni, costi operativi pari a 35,1 milioni e un utile netto di 16,3 milioni. Ha venduto 60,5 mila tonnellate (il volume più alto), con un ROI del 37,5% e 16,5 milioni di investimenti.
Previsioni per il 2023-2024
I dati previsionali per il 2023 e il 2024 si basano su informazioni fornite dall’Associazione Nazionale dei Produttori di Acquacoltura (API) e su analisi dell’Associazione Mitilicoltori (AMA), nonché su interviste a testimoni impegnati in importanti aziende di allevamento di trote, vongole, orate e branzini. A partire dal 2023, il settore dell’acquacoltura italiano sta affrontando un calo significativo, con un peggioramento previsto per il 2024. Questa problematica è principalmente attribuita alla diffusione di specie, come il granchio blu, che ha invaso l’Adriatico e altri mari italiani, provocando squilibri ecologici. Parallelamente, l’acquacoltura nelle acque interne è stata colpita dall’aumento dei costi operativi. Il conflitto in corso in Ucraina ha fatto aumentare i prezzi dell’energia, incidendo sulle catene di approvvigionamento e aumentando ulteriormente i costi. Anche i prezzi dei mangimi, voce di spesa fondamentale per il settore italiano, sono aumentati drasticamente, aggravando le spese da sostenere. Queste difficoltà si sommano a un crescente senso di incertezza all’interno del settore, con molte imprese di acquacoltura che faticano a mantenere un’occupazione stabile e continua.
La bilancia commerciale dell’agroalimentare italiano e il ruolo degli Stati Uniti
Il ruolo degli USA come mercato di sbocco per l’export agroalimentare italiano è di grande rilievo: nel complesso il flusso verso gli USA nel 2024 vale 7,8 miliardi rappresentando l’11,6% delle esportazioni totali in valore. Gli Stati Uniti si collocano al 2° posto tra paesi partner per le vendite dei prodotti agroalimentari italiani all’estero. Se consideriamo il valore delle esportazioni di prodotti dell’agricoltura, della silvicoltura e della pesca il ruolo di partner commerciale degli Stati Uniti si ridimensiona. Per questa categoria merceologica l’export negli USA vale poco meno di 134 milioni di euro (1,2% del totale). Gli Stati Uniti si collocano, infatti, solo al 17° posto nella graduatoria delle destinazioni delle nostre vendite all’estero di prodotti del settore primario.
Nel 2024 la bilancia commerciale dei prodotti agroalimentari italiani ha evidenziato una ulteriore ampliamento del valore del surplus commerciale, grazie alla buona performance delle esportazioni che, nello specifico, hanno raggiunto 67,5 miliardi di euro, in aumento dell’8,3% sull’anno precedente. L’andamento positivo rilevato anche nel valore delle importazioni nell’ultimo anno (+6,9%) è stato comunque inferiore, consentendo l’ampliamento dell’avanzo commerciale per un valore di poco inferiore a 940 milioni di euro.
Guardando all’interscambio con gli USA, la bilancia commerciale italiana dell’agroalimentare mostra un surplus pari a 6,3 miliardi di euro nel 2024, in aumento di 902,5 milioni di euro rispetto all’anno precedente; le esportazioni verso il mercato statunitense si attestano a poco più di 7,8 miliardi di euro, in aumento del 17,1% rispetto al 2023.
Nelle esportazioni agroalimentari verso USA, risultano maggiormente rilevanti i comparti “Vini e mosti”, che da soli rappresentano il 24,7% dell’export totale nel 2024, “cereali, riso e derivati” (16,0%) e “oli e grassi” (il 13,6%).
L’export agroalimentare italiano verso gli USA per comparti produttivi (mln euro)
Nel 2024 le importazioni agroalimentari degli USA valgono nel complesso 241,7 miliardi di dollari. Gli USA sono caratterizzati da un importante disavanzo agroalimentare: nel 2024 il saldo commerciale per questa categoria merceologica è negativo per 70 miliardi di dollari. La quota di mercato dell’Italia negli Stati Uniti per i prodotti agroalimentari nel complesso nel 2024, sulla base delle statistiche d’importazione del paese di UNCOMTRADE, è del 3,8%.
Nel 2024 l’attività di vigilanza in materia di lavoro effettuata dagli Ispettori dell’INL e dai Carabinieri del Comando Tutela Lavoro ha riguardato 8.847 accessi ispettivi presso aziende classificate nell’ambito dell’ATECO “Agricoltura, silvicoltura e pesca”. Il risultato dei 6.023 accertamenti definiti ha permesso la contestazione di 4.118 illeciti. La percentuale di ispezioni in cui sono stati contestati illeciti rispetto al numero delle pratiche definite è stata perciò pari a circa il 68,4%.
Numerosità dei lavoratori irregolari e caratteristiche delle violazioni accertate
Nel 2023 sono stati complessivamente 7.884 i lavoratori irregolari accertati in occasione delle verifiche ispettive effettuate dagli Ispettori dell’INL e dai Carabinieri del Comando Tutela Lavoro. I lavoratori irregolari individuati in aziende dell’ATECO “Agricoltura, silvicoltura e pesca” rappresentano in particolare il 3,8% del complesso dei lavoratori irregolari accertati nel corso delle attività ispettive effettuate dagli Ispettori dell’INL e dai Carabinieri del Comando Tutela Lavoro in Italia.
Un approfondimento sulle caratteristiche dei lavoratori coinvolti nelle violazioni accertate permette di evidenziare che nel 2024 i lavoratori occupati “in nero” individuati nel corso delle attività di vigilanza presso aziende classificate nell’ambito dell’ATECO “Agricoltura, silvicoltura e pesca” sono stati 1.819, di cui 254 extracomunitari privi di regolare permesso di soggiorno. L’analisi dei dati riportati in tabella 1 permette di evidenziare come quasi un quarto (23,1%) del totale dei lavoratori irregolari accertati risulti impiegato in nero per la mancata applicazione dei contratti collettivi e/o per la violazione degli obblighi in materia previdenziale ed assicurativa. Nel periodo 2016-2024 si riduce, inoltre, l’incidenza dei lavoratori in nero sul totale dei lavoratori irregolari passando dal 72,5% del 2016 al 23,1% del 2024. L’esito degli accertamenti dell’INL e dei Carabinieri del Comando Tutela Lavoro evidenzia inoltre una riduzione dell’incidenza delle situazioni di irregolarità che riguardano i lavoratori extracomunitari privi di regolare permesso di soggiorno (dal 3,9% del 2016 al 3,2% del 2024).
Lavoratori irregolari: lavoratori in nero e lavoratori extra comunitari clandestini in aziende dell’ATECO “Agricoltura, silvicoltura e pesca”
Provvedimenti di sospensione della attività imprenditoriale
L’art. 14 del Decreto legislativo n. 81/2008 (Testo Unico in materia di tutela della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro) consente al personale ispettivo dell’Ispettorato nazionale del lavoro di sospendere l’attività imprenditoriale. Il personale dell’INL può fare ricorso a questo provvedimento nelle situazioni in cui viene accertato che oltre il 20% del totale dei lavoratori presenti sul luogo di lavoro non figura nella documentazione obbligatoria. Il provvedimento di sospensione può essere adottato anche nelle imprese in cui è accertata la presenza di gravi e reiterate violazioni in materia di tutela della salute e sicurezza.
Nel 2024 secondo ISTAT la popolazione a rischio di povertà o esclusione sociale[1] è pari al 23,1% (era 22,8% nel 2023), per un totale di circa 13 milioni e 525mila persone.
Nel 2023, invece, è stato stimato che il reddito netto delle famiglie residenti in Italia sia stato pari in media a 37.511 euro, circa 3.125 euro al mese. L’incremento dei redditi familiari in termini nominali (+4,2% rispetto al 2022) non è riuscita a tenere il passo della crescita dell’inflazione osservata nel corso del 2023 (+5,9% la variazione media annua dell’indice armonizzato dei prezzi al consumo, IPCA), determinando un calo dei redditi delle famiglie in termini reali (-1,6%).
LAVORO A BASSO REDDITO E POVERTÀ LAVORATIVA
I redditi da lavoro rappresentano la fonte principale da cui provengono i redditi familiari per la maggior parte delle famiglie. Non sempre il reddito proveniente dall’attività lavorativa, però, è sufficiente a eliminare il rischio di povertà per il lavoratore e la sua famiglia. Il reddito individuale percepito dal lavoro può essere insufficiente a causa del basso valore della retribuzione o perché il lavoratore ha avuto una ridotta intensità lavorativa nel corso dell’anno. Tuttavia, il rischio di povertà per i lavoratori è legato anche alla composizione della famiglia e al numero di percettori di reddito al suo interno.
I lavoratori a basso reddito
Nel 2023, i lavoratori a basso reddito[2] sono pari al 21% del totale (pressocché lo stesso valore registrato nel 2023). Il rischio di essere un lavoratore a basso reddito cresce per le donne rispetto agli uomini (26,6% contro 16,8%), per gli occupati appartenenti alle classi di età più giovani (29,5% per i lavoratori con meno di 35 anni contro un valore pari al 17,7% registrato per quelli nella classe 55-64), per gli stranieri rispetto agli italiani (35,2% contro 19,3%). Ha maggiore probabilità di essere a basso reddito il lavoratore con un basso livello di istruzione (dal 40,7% per gli occupati con istruzione primaria al 12,3% per quelli con istruzione terziaria). Risulta inoltre a basso reddito il 17,1% dei lavoratori dipendenti, il 28,9% degli autonomi e il 46,6% di chi ha un contratto a termine, rispetto all’11,6% di chi ha un contratto a tempo indeterminato.
Il rischio di basso reddito è ovviamente correlato all’intensità lavorativa: l’incidenza del lavoro a basso reddito è pari all’88,8% per quei lavoratori che hanno lavorato meno di 4 mesi nel corso dell’anno, arriva al 56,3% per quelli che hanno lavorato tra i 4 e i 9 mesi e scende fino al 13,6% per quelli che hanno lavorato più di 9 mesi.
Figura 1 – Rischio di lavoro a basso reddito per caratteristiche individuali e familiari (a) – Anno 2023 per 100 occupati con le stesse caratteristiche
[1] Si tratta degli individui che si trovano in almeno una delle seguenti tre condizioni: a rischio di povertà, in grave deprivazione materiale e sociale o a bassa intensità di lavoro (Vedi Glossario).
[2] I lavoratori che hanno lavorato almeno un mese nell’anno e hanno percepito un reddito netto da lavoro inferiore al 60% del valore mediano della distribuzione individuale del reddito netto da lavoro relativa al 2023 (vedi glossario).
A marzo 2025 Censis/Confcooperative hanno pubblicato uno studio sull’adozione dell’intelligenza artificiale (IA) nei vari Paesi del mondo partendo dalle informazioni messe a disposizione dal Government AI Readiness Index 2024. L’Italia si colloca al 25° posto per l’utilizzo dell’IA, al di sotto anche di Francia, Regno Unito, Paesi Bassi e Germania. Analizzando settori di attività, si osserva che quelli che ne fanno maggiormente utilizzo sono Informazione e comunicazione (Italia: 34,6% Vs. UE27: 48,7%) e Attività professionali (Italia: 19,6% Vs. UE27: 30,5%). In Italia per il Commercio e la Manifattura si registra una propensione all’adozione dell’IA inferiore alla media europea, seppur registrando un utilizzo percentuale rispettivamente dell’8,2 (UE27: 12,1%) e dell’8,0 (UE27: 10,6%). Tassi di diffusione dell’IA inferiori si registrano per gli altri settori: attività amministrative e di supporto 7,7%; attività immobiliari 6,2%; trasporto e stoccaggio 5,2%, attività di alloggio e ristorazione2,7%; altre attività 8,2%.
Analizzando le scelte delle imprese in base alla dimensione aziendale (Figura 4) si osserva che anche in questo ambito le imprese con oltre 250 dipendenti hanno una maggiore propensione agli investimenti in IA: il 60,5% delle grandi imprese ha dichiarato infatti che investirà nel biennio 2025-2026 sulle tecnologie IA (nel 2021 erano il 27,7%). A seguire, le imprese con meno di 250 occupati con il 40,1% (nel 2021 erano il 12,9%); il 30,9% delle imprese con meno di 100 dipendenti dichiarano di essere disposte a investire sulle tecnologie IA (nel 2021 erano il 10,3%) e, infine, le imprese con meno di 50 dipendenti disposte agli investimenti rappresentano il 16,9% (nel 2021 erano il 3,4%). Il dato interessante è l’aumento in percentuale, che appare addirittura triplicato in alcuni casi, delle aziende che hanno investito nel triennio 2021-2024, segno evidente di un interesse sempre più crescente e reale all’implementazione dell’IA nelle strategie aziendali.
Investimenti materiali e immateriali nel biennio 2025-2026 sulle tecnologie IA per dimensione aziendale (valore %)
Economia e futuro
Secondo la stima McKinsey, nel 2030 il 27% delle ore lavorate sarà automatizzato e i comparti maggiormente coinvolti saranno: servizi di ristorazione (37%), supporto d’ufficio (36%), lavoro di produzione (36%), installazione e riparazione meccanica (33%), costruttori (30%), e agricoltura (30%). La percentuale elevata registrata nel settore agricolo appare correlata alla crescente diffusione nel settore delle tecniche produttive che fanno ricorso ai dispositivi informatici di monitoraggio di mezzi ed attrezzature e di colture e terreni.
Secondo McKinsey, quindi, nel 2030 ci sarà una ristrutturazione del mercato del lavoro a partire dalla richiesta di profili specializzati nell’utilizzo di IA. Questo comporterà una ulteriore polarizzazione del mondo del lavoro con, da un lato, una richiesta maggiore di mansioni specializzate con salari più elevati e, dall’altro, mansioni basilari con salari sempre più bassi. D’altro canto, diminuirà la richiesta di mansioni intermedie con salari medi e mansioni ordinarie con salari bassi. Questo dato si fa ancora più allarmante se si analizza la pubblicazione della Banca d’Italia secondo cui dei 22 milioni di lavoratori attivi nel 2022 in Italia, circa 15 milioni ricadono nella fascia a medio-alta esposizione alla sostituzione/complementarità. A loro volta 9 milioni sono nella fascia esposta alla complementarità con l’IA e 6 milioni circa sono a rischio sostituzione. La tabella 3 offre un quadro completo delle prime dieci professioni in Italia altamente esposte alla complementarità o con alto rischio di sostituzione in Italia. Le mansioni correlate all’elaborazione di dati matematici e non sono quelle a rischio più elevato sia per la sostituzione che per la complementarità.
Prime 10 professioni esposte alla complementarità o a rischio sostituzione in Italia, 2023
Alcuni impatti della digitalizzazione sulla tradizionale visione del mondo del lavoro
All’implementazione del paradigma digitale si accompagnano profonde trasformazioni che mettono in discussione le tradizionali categorie analitiche finora adoperate e che riguardano nodi cruciali dei modelli di relazioni industriali attualmente vigenti. Un primo ambito riguarda le trasformazioni che il nuovo paradigma digitale produrrà sulle categorie tradizionali dell’organizzazione del lavoro. Il mutamento di paradigma prospettato dalla digitalizzazione supera, infatti, le logiche verticistiche del comando e del controllo richiedendo al prestatore di lavoro la capacità di lavorare con autonomia all’interno di cicli, e dunque per progetti e a risultato, con sempre minore rilevanza circa i modi, i tempi e persino i luoghi della prestazione di lavoro. Un secondo ambito riguarda i risvolti che la digitalizzazione avrà su alcune tradizionali aree professionali aziendali. Le tecnologie flessibili che caratterizzano il digitale rendono possibile la quasi totale personalizzazione dei prodotti. Un terzo ambito di cambiamento riguarda la tradizionale strumentazione utilizzata nella contrattazione. La flessibilità su cui si fonda il paradigma digitale consente una drastica velocizzazione delle tempistiche di produzione mediante il ricorso a macchinari polivalenti che possono essere impostati in numerose combinazioni. Un quarto ambito riguarda la conservazione di adeguate tutele per i lavoratori. Il paradigma digitale determina l’eliminazione della maggiore parte dei compiti meccanici e ripetitivi. Un ultimo ambito riguarda le trasformazioni che il paradigma digitale determina nella domanda di professionalità espressa dalle aziende e sulle politiche formative. L’innovazione continua e lo sviluppo in fabbrica di brevetti e di nuove tecniche produttive sono variabili essenziali per la competitività nell’era del digitale.